In Italia la prostituzione è veramente un mestiere legale? Si tratta davvero di una regolare attività economica libera?
In fede a quanto trovato scritto in un articolo comparso su fanpage.it e intitolato “La Cassazione dice che la prostituzione è un’attività economica libera e non illecita“, e nel rispetto della corretta interpretazione del testo stesso, sarebbe lecito che la Cassazione desse valide risposte alle due domande su scritte, in quanto il primo cittadino di un comune pare che si sia visto giudicare illegittimo un provvedimento “anti-prostituzione” da lui adottato.
La sentenza 4927, secondo quanto riferisce il medesimo articolo, non ha ritenuto conforme alla legge il provvedimento del sindaco che avrebbe previsto un’ammenda di 500 euro a chi con l’automobile si fosse accostato per far salire a bordo una prostituta e la condanna della multa sarebbe stata, se non altro, per intralcio al traffico. Si era trattato sicuramente di un modo per scoraggiare a priori potenziali clienti.
Cionostante, un cittadino colpito da tale provvedimento, non ha esitato a presentare ricorso, giungendo – a distanza di qualche anno – all’ultimo grado di giudizio con l’ottenimento della ragione. Secondo quanto riportato dall’articolo, la Cassazione si sarebbe pronunciata affermando che provvedimenti “anti-prostituzione” non sono legali perché l’attività di meretricio non è illecita e rientra nelle attività economiche e per cui non può esserne vietato l’esercizio se non per mezzo di una normativa statale. In buona sostanza nessun sindaco si può permettere di vietare la prostituzione nel territorio in cui esercita le proprie funzioni.
La risposta alle due domande iniziali, secondo quanto riporta un altro articolo apparso su FirenzeToday “Ordinanza anti-prostituzione del Comune: cosa si rischia davvero“, darebbe ragione alla Cassazione nonostante ciò che si voglia pensare. L”articolo dice infatti che, malgrado ogni sindaco goda dei poteri per la salvaguardia del proprio comune dai rischi sulla criminalità e sul decoro della città, nell’ordinamento italiano la prostituzione costituisce un fenomeno giuridicamente tollerato, e perciò non sottoposto a sanzione. Questo starebbe a dire che non commetterebbe reato né chi si prostituisce e né chi chiede prestazioni sessuali.
Di fronte a tali affermazioni rimangono sacrosanti i reati di sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione e tutte le condotte collaterali ad esse collegate, però alla mancanza di strumenti, di personale e di tecniche, per far fronte alle realtà di sottomissione alle quali sono sottoposte certe ragazze, costrette ad umiliarsi e a vendersi per strada come oggetti da mercato, gli organi competenti quali soluzioni hanno adottato? E quali ne sono stati i risultati ottenuti?
Affrontando altresì il tema attività, chi sfrutta certe donne paga le tasse come normalmente fanno coloro in possesso della partita Iva? Le sottoposte a certi impieghi pagano le ritenute fiscali allo Stato come qualunque lecito dipendente? Nell’ipotesi di considerare la mercanzia del sesso come un’attività, dovrebbero vigere su di essa le medesime leggi di qualunque altro impiego legalmente riconosciuto. E dunque, esiste qualcosa sulla prevenzione e protezione infortuni? Di quali DPI dispongono le lavoratrici oltre al profilattico? Quali provvedimenti vengono adottati sulla salute di quelle povere vite sacrificate? Se a queste basilari domande non si danno risposte come può essere considerata lecita tale attività? Senza considerare tutto quanto giri attorno ad essa.
Il discorso non si permette di giudicare l’esito della Corte di Cassazione, bensì l’ordinanza vigente che – così come letta – meriterebbe di essere cambiata sennonché eliminata.