MARCO PANTANI, IL PIRATA DELLA MONTAGNA
1.
di Roberto Fiordi
Marco Pantani, un “Pirata” tutto italiano in maglia rosa, occhiali da sole in montatura gialla sopra le orecchie, barbetta castana intorno alla bocca e una tenace e grintosa espressione facciale, tipica del grande campione convinto in ciò che sta facendo, scalava intrepido le Dolomiti in sella alla sua due ruote affrontando in solitudine le salite di Madonna di Campiglio. Da quando mancavano cinque chilometri all’arrivo, aveva iniziato a distanziarsi dagli inseguitori, allargando sempre di più la forbice. Prendeva metri su metri e secondi su secondi da chi fino a quel momento lo aveva tallonato. Non si arrendeva, continuava a lottare in fuga con sé stesso. Un vero “To spin like a rattle” (girare come una trottola) era per le sue gambe. Chissà che cosa volesse raggiungere.
Fisso sui pedali non demordeva. L’orgoglio di un uomo timido ma profondo, rabbioso ma generoso, di polso ma fragile, era il gas per le proprie gambe; ma non poteva immaginare minimamente che quella sarebbe stata la sua ultima gara da indiscusso campione.
La passione e il sentimento che ci metteva avevano fatto innamorare tutti. Era l’orgoglio nazionale del ciclismo. Aveva infiammato gli animi degli amanti delle due ruote e non solo loro. I giornali ne parlavano tutti.
Marco Pantani era un ciclista fuori dalle righe nel suo lavoro, tutto ciò che aveva in testa lo faceva. Non era un soggetto facile da gestire, sostiene Gimondi. Il Pirata era un alpino in sella al proprio mezzo: un vero arrampicatore; ma al di fuori della professione, nella vita normale, perdeva l’esuberanza del lottatore e anzi, si rivelava un uomo timido che odiava la confusione. Spesso si ritirava in solitudine a cenare nella propria stanza d’albergo prima delle gare. Assumeva un atteggiamento schivo con i giornalisti e con le persone, ma non con le salite di tappa che erano il suo forte. Con lo sguardo dritto in avanti di Walter Bonatti (ritenuto il più grande alpinista della storia, la leggenda della montagna) e con il grugno fisso sul viso, Pantani partiva all’attacco, inerpicandosi su per le salite anche quando potevano mancare ancora una cinquantina di chilometri al traguardo.
La forza, il cuore e lo stomaco di questo grande campione sortirono fuori da lui anche in quella che possiamo chiamare la miracolosa impresa nella tappa con arrivo a Oropa nel 1999, una delle gare più belle, quando appunto gli saltò la catena della bici e ciononostante seppe reagire e rimontare ben quarantanove concorrenti, andando a vincere senza che fosse stato capace di rendersene conto. Marco tagliò il traguardo senza nemmeno avere esultato e questo dimostra che il suo obiettivo non era soltanto vincere, ma anche lottare. Un’impresa come quella mai nessun altro è stato capace di ripeterla finora.
Le doti da grande scalatore dimostrò di averle subito ai suoi esordi, quando dal mondo del calcio passò a quello del ciclismo da strada, tesserandosi con il Gruppo Cicloturistico Fausto Coppi di Cesenatico. Vinse molte gare e nel 1990 arrivò terzo al Giro d’Italia dilettanti. L’anno successivo secondo allo stesso Giro e nel 1992 salì sul podio del vincitore.
Partecipò al Giro d’Italia professionisti l’anno dopo ancora, nel ’93, ma fu costretto al ritiro per una tendinite.
Si rifece l’anno successivo, dopo essere passato alla squadra Carrera dello storico direttore sportivo Davide Boifava, dove fu capace di aggiudicarsi le importanti vittorie di tappa a Merano e all’Apice, e quindi ad aggiudicarsi il secondo posto nella classifica generale, davanti a Indurain e alle spalle di Berzin. La classifica non cambiò più.
Il primo successo da professionista lo segna nell’Impresa del Mortirolo, dove nella Lienz-Merano fa ballare le proprie gambe portando un prestigioso attacco in salita, andando a “tagliare la corda” del traguardo a ben quaranta secondi su Bugno. Il giorno successivo, alla tappa del Mortirolo, Pantani parte subito all’attacco e la maglia rosa di Berzin fa di tutto per tenergli testa. Lo stesso prova a fare Indurain ma Pantani è come il vento, divora tornanti e chiude in solitudine il traguardo dell’Aprica al primo posto diventando l‘eroe del Mortirolo.
Lo stesso anno il suo debutto al Tour de France fu molto soddisfacente aggiudicandosi il terzo posto nella classifica generale, alle spalle di Miguel Indurain, che non gli consentì nemmeno una vittoria di tappa, e di Pëtr Ugrumov; portandosi comunque a casa la maglia bianca di miglior giovane.
Da quel momento iniziano gli anni della sfortuna per il nostro campione. Mentre è in preparazione al Giro d’Italia del 1995, un incidente con una macchina gli fa slittare i sogni. Punta così al Tour de France dove, però, è costretto a riportare un forte ritardo a causa del ginocchio ancora non del tutto rimesso a posto. Ciò non basta, comunque, a tenerlo in ombra perché il Pirata, grazie al proprio animo e orgoglio, con il cuore grande come una casa, riesce ad aggiudicarsi due tappe (sull’Alpe d’Huez, e la tappa Pirenaica di Guzet Neige). Ma la sfortuna non lo abbandona.
È il 18 ottobre 1995, alla Milano-Torino, quando un fuoristrada entra nella traiettoria dei ciclisti: Pantani, Dall’Olio e Secchiari, che non sono capaci di evitarlo. I tre sono in ordine: Secchiari davanti, Pantani nel mezzo e Dall’Olio dietro. Hanno un passo che si aggira sui sessanta chilometri all’ora. C’è una chiazza d’olio sulla strada, Secchiari frena, Pantani lo supera; ma due curve dopo, in piedi sulla bici, si va a schiantare contro la jeep. Anche gli altri due non escono immuni da quell’ostacolo. Il computer recuperato dalla bicicletta di Secchiari riporta che stavano procedendo al momento dell’impatto a una velocità di circa ottanta chilometri all’ora.
Una dolorosa frattura alla gamba. Per Pantani e per gli altri due, fine della gara. Tuttavia Marco era comunque già stato protagonista quell’anno al Mondiale in Colombia giungendo terzo.
Nel 1997 il cesenate Pirata dalla bandana in testa si trasferì alla squadra Mercatone Uno di Romano Cenni.
Ma ancora la macchia della sfortuna non lo abbandona: era l’unica a tenergli testa… Al Giro d’Italia ’97, durante la discesa del valico di Chiunzi, un gatto gli taglia la strada e lo fa volare per terra. Con l’aiuto della squadra riesce a terminare la gara ma all’ospedale viene riscontrata la lacerazione nelle fibre muscolari della coscia sinistra.
Recupera velocemente e partecipa al Tour de France e lottando come un leone per la maglia gialla si aggiudica il terzo posto della classifica finale uscendo battuto nelle tappe a cronometro ma no nelle salite dove dimostra ancora di essere il numero uno. È capace, addirittura, di aggiudicarsi il record storico di 37 minuti e 35 secondi all’ascesa dell’Alpe d’Huez.
L’anno successivo si aggiudicò finalmente il Giro d’Italia, primeggiando sugli altri contendenti al titolo.
Nel 1999 le cose per Pantani, però, precipitarono. L’iperbole del grande campione iniziò a piombare giù a picco come un missile in discesa.
Era proprio quando il corridore puntava al Giro d’Italia, dimostrando di essere il numero uno in piena forma, andando a scalare ripide salite e ad aggiudicarsi vittorie dopo vittorie, fra cui quella detta sopra di Oropa, che si presentarono a lui i quattro “Cavalieri dell’Apocalisse”.
Era il mattino del 5 giugno a Madonna di Campiglio, e gli orologi segnavano le 10:10, quando furono resi pubblici i risultati dei test svolti dai medici dell’UCI sui corridori, e Pantani fu fermato alla partenza. I valori riscontrati nel suo sangue erano superiori di un punto rispetto alla tolleranza. Era nato subito il sospetto di possibile ricorso all’Eritropoietina data l’elevata concentrazione di globuli rossi nel sangue. La conseguenza fu fatale per il corridore. Fu quella dell’immediato ricorso alla sospensione per quindici giorni dal giro.
Tale sospensione non poté che compromettergli la maglia rosa; e fu proprio in quell’anno che iniziò il suo calvario. Fu un durissimo colpo nel mondo dello sport ciclistico. La notizia aveva sconvolto tutti. Furono in molti a stentare a crederci. Oramai l’eroe delle montagne era riuscito a entrare nel cuore di numerosi fan. I familiari avevano gridato al complotto, per i giri di scommesse clandestine che circolano intorno alle corse.
Dalle stelle alle stalle fu per il campione: le cronache che fino allora lo avevano piantato sul trono dell’imperatore vincente adesso lo schiacciavano sempre più giù nella voragine che si era aperta ai suoi piedi. Ritornò a correre nel 2000 come gregario a Stefano Garzelli, ma non era più il Pirata con la bandana in testa che tutti avevano conosciuto. Psicologicamente scosso, non riusciva più a ottenere i risultati degli anni precedenti.
Cercò di rifarsi al Tour, dove duellò con l’americano e futuro vincitore indiscusso Lance Armstrong. Fu una sfida di gambe e nervi e il 13 luglio riuscì a vincere la tappa del maestoso Mont Ventoux, iniziando a scalciare ben bene la sua bici dove la strada s’inerpica del 10% fra i vigneti e all’ombra della pittoresca vegetazione, per poi proseguire sui rettilinei delineati dalle rocce del vero Mont Ventoux, dove il sole arde e la strada si fa più pianeggiante.
I due duellanti sono appaiati. Si scambiano qualche parola, forse è lo stesso Armstrong a incoraggiare Pantani, questo non lo sappiamo, sappiamo solo che a fine gara lo stesso americano dichiarerà d’averlo lasciato vincere. Una dichiarazione che fece scatenare il rivale ciclista, che tre giorni dopo si aggiudicò il bis nella tappa con arrivo a Courchevel. Due giorni dopo ancora, Pantani si era messo in testa di recuperare i nove minuti che lo separavano dalla maglia gialla e per far questo aveva progettato di staccarla nel tappone con arrivo a Morzine. Partì all’attacco quando mancavano ancora cento chilometri al traguardo, ma riecco comparire sulla sua testa la faccia del demone della sfortuna, che lo rese vittima di dissenteria. Pantani crollò apportando un ritardo di quattordici minuti circa, molti e sufficienti affinché si ritirasse.
A seguito di quell’episodio, un amico scomodo andò a bussare alla porta di casa sua. La Cocaina. La felicità nemica.
Ecco Marco entrare in un ginepraio di drammatiche vicende che vanno a contrapporsi ai suoi buoni propositi sportivi. Lo scalatore di salite resta vittima d’incidenti d’auto, notti insonni, fascicoli aperti dalle procure.
È nel 2003 che Pantani sembra essere ritornato il Pirata con la bandana in testa che era stato. Ma il campione fa parlare di sé più per cronaca che per sport. Il ricovero per disintossicazione a Padova, i viaggi a Cuba, l’isolamento vero e proprio da tutto e da tutti, genitori inclusi, e infine la sua morte.
È il 14 febbraio 2004 e nella stanza all’ultimo piano del Residence Le Rose di Rimini Pantani muore. Muore nella solitudine più totale. Gli inquirenti rinvengono scatole di ansiolitici e psicofarmaci con lui. Assieme ai farmaci ci sono quattro fogli scritti di sua mano nei quali viene riscontrata l’amarezza, la delusione, lo sconforto e il rancore verso il mondo intero di un uomo lasciato solo.
L’autopsia dichiara la morte per overdose di cocaina.
La famiglia però non è d’accordo. Non ci sta. Ci sono alcune cose che non quadrano. Orari del decesso discordanti. Quantità troppo elevata dello stupefacente rinvenuta nel suo corpo, e altro ancora, perciò vuole fare maggiore chiarezza. Il corpo del ciclista torna sotto esame e la scienza smonta il caso.
Alitano ancora oggi forti sospetti che si fosse potuto trattare di omicidio e non di suicidio.
- Titolo e immagine fonte Zest.today