Anna Jencek: la musica e la poesia di Shakespeare

Ormai non è nuova a queste avventure davvero distanti dal comune vivere di ogni giorno, sfacciatamente rivolto al futuro della tecnologia. Anna Jencek l’aveva fatto con le poesia di Saffo dentro un disco come “Saffosonie” e in passato tante altre volte ha indagato il ruolo della poesia, della parola e del suono a corredo. Torna su questo sentiero oggi con il disco “Jencek canta Shakespeare” uscito per la Moletto Music in occasione dell’80° compleanno di Herbert Pagani e del Centenario di Arturo Schwarz (sua la firma di una disamina allegata al progetto). Atra nota d’ufficio: i sonetti del drammaturgo e poeta inglese sono presi dalle traduzioni di Giuseppe Ungaretti e Sara Virgillito. Per il resto ci ritroviamo dentro i suoni che Dario Toffolon torna a dirigere e sagomare attorno ad orchestrazioni in un continuo dialogo tra mondo reale e digitale… quella sensazione favolistica, onirica, ascetica che fa da contorno alla poesia e non ci sono rimandi alla forma materica del presente. Anche i suoni digitali vengono usati con modi dalle facciate antiche. Siamo dentro un viaggio lontano dal concreto e la Jencek ci regala una visione allo stesso tempo antica, magica, costellata di futuro. È un disco difficile sicuramente: abbandoniamoci a questo tipo di alterità davvero classica. Nella lunga tracklist trovano anche spazio due scritture inedite in stile…

Poesia, vita, parole e quella dimensione quotidiana. Sembrano mondi assai distanti eppure convivono dentro uno stesso disco, dentro una stessa persona… o sbaglio?
In me la poesia diventa subito musica, è come se avessi incorporato un traduttore simultaneo che volge in note le parole. D’altronde la poesia ha già dentro di sè musica, se la vuoi e la sai ascoltare, con l’umiltà di non imporre la tua personalità artistica che può risultare estranea, ma, al contrario, la metti al servizio del respiro altrui. Poesia e musica sono vita, spirito del divino, scientificamente: armonia del cosmo. Mi diceva il grande Guirino principe, amico e, bontà sua, mio estimatore, che noi compositori non inventiamo, ma traduciamo in linguaggio a noi contemporaneo il suono primordiale della creazione ed espansione dell’universo.

E se banalmente ti chiedessi cos’è il vero segreto che porta la convivenza del suono, della poesia, della melodia?
Libertà è l’unica chiave di lettura per questo connubio.

Riferimenti ai giochi di luce: sono la chiave anche per una narrazione da vedere e non solo da sentire. Ce ne dai una fotografia? Come la usi la luce?
Giovane biondo: luce – dama bruna: ombra. Tecnicamente potrei dire con una certa superficialità che in genere uso il tono maggiore per i rimandi alla luce e quello minore per i percorsi nell’ombra, ma ampliando i sensi con una capatina nei meandri della psiche, potrei dire che il godimento artistico non oppone contrasti: nella luce è in divenire il riposo dell’ombra, nell’ombra c’è la promessa della luce (armonia esistenziale: la vita, la morte, la ricongiunzione all’energia universale).

La natura ma anche la storia. E poi la memoria come collante e come ponte. Ogni opera in fondo ricerca il passato o lo emancipa in forma d’arte. Cosa ne pensi?
Neoplatonismo con suggestione filosofica. Tutta la storia dell’arte ha un retropensiero filosofico, io non ne sono immune. Ma in modo semplice, naturale, così come è filosoficamente melodioso il soffio del vento fra le canne (e il soffio del musicista fra le canne dell’organo). Quindi, per me, la natura stessa è filosofia cosmica, e io ci sono dentro, come tutti, il privilegio è accorgersene… “deus sive natura” (Baruch Spinoza).