Bande rumorose in A1: un blues desertico di riflessioni quotidiane

Parliamo con Matteo Bosco e Valeria Molina, parliamo con Bande rumorose in A1, questo progetto decisamente votato al minimalismo e a forme blues di ermetismo. Poi il pop nelle liriche contribuisce ad una forma decisamente accattivante: si intitola “Gli inquilini del sottoscala”, questo disco d’esordio uscito per Private Stanze, suono che rinuncia agli sfarzi del digitale e affida tutto al mestiere artigiano di suoni assai viscosi e secchi ai contorni. Ai due si uniscono anche Davide Tosches (percussioni, chitarra elettrica) e Swanz the Lonely Cat (armonica).

Quanto suono desertico. C’è anche della ritualità dentro tutto questo?
Non so se si tratta di “ritualità” o, più semplicemente, di “insistenza”. Sì, nel dire le cose, certe cose, è necessaria l’insistenza, in modo tale che il contenuto del brano si presenti come una struttura da ascoltare ma, soprattutto, come qualcosa con cui dialogare, non sempre in modo piacevole e comodo. Per quanto mi riguarda, e forse questo emerge anche nel disco, una sorta di ritualità costituisce un elemento importante della mia vita.

Quanto ha contribuito l’immaginario americano?
L’immaginario americano è presente in diverse accezioni: in quella “moderna” e politica del termine, come sistema prepotente, come qualcosa che (come detto in “Gli stati finiti”) “assalta la sua luna”, come che si arroga in diritto di indicare il “nemico” (“arriva l’indiano e ha la faccia cattiva”). E’ presente però anche come spunto artistico, come ricordo di tutte sonorità e delle idee nate in America: non parlo solo di musica, mi viene in mente in cinema, tutte le immagini che ci ha lasciato e che, chiaramente, ritornano nei versi dei nostro brani.

E parlando di origini? Chi dovete chiamare in causa?
Le origini di un cantautore (io continuo a definirmi tale, nonostante il termine sia oggetto di “controversie”) sono un intreccio di due cose: ciò che hai “sentito” nei dischi e nei libri, ciò che hai “ascoltato” con la tua esperienza. I nomi sono tantissimi e la cosa interessante, credo, è che gli artisti che ho amato (e ascoltato) di più non necessariamente sono quelli che poi, all’atto pratico, mi hanno influenzato maggiormente. Credo si tratti di una sorta di “egocentrismo reverenziale” (accostamento inventato sul momento): più reputi “grande” un artista e più tendi ad evitare l’emulazione, vuoi perché non ti ritieni all’altezza, vuoi perché ci tieni ad una tua originalità. Permettimi due nomi: Roy Harper, De Gregori (Dylan, per utilizzare una metafora calcistica, “fa un altro campionato”, si ama e basta).

Eppure il disco gioca anche, con provocazioni sottili per palati fini… vero?
Ci piace molto giocare con il linguaggio, si possono fare e dire tantissime cose. Io sono convinto che il “vestito” che dai un’idea sia fondamentale, l’idea sa sola non basta, noi cerchiamo di incuriosire chi ascolta i nostri brani, non solo: cerchiamo di spingere l’ascoltatore ad un “lavoro” che lo porti a rivivere la canzone, a interpretare i versi, gli scenari e le note. I riferimenti e le provocazioni ci sono ma per coglierle è necessario un secondo, un terzo ascolto e questo è il valore aggiunto che abbiamo voluto dare al disco. Mi hanno sempre colpito le canzoni che, dopo cento ascolti, dopo tre anni che non le ascoltavi più, improvvisamente ti fanno dire “ah ma allora intendeva…”.

Un video ufficiale in questo mare di visionarietà?
Il video di “Nuvole Rosse” credi riassuma perfettamente lo spirito del brano, lo spirito del disco (“Gli inquilini del sottoscala”) e il modo con cui noi interpretiamo la musica: fantasia, divertimento, riflessione, spesso amara ma mai “disperata”. “Nuvole Rosse” è la paura del diverso e noi l’abbiamo esorcizzata con l’ironia, ma è un’ironia rabbiosa, stanca del luogo comune, dell’incapacità di analizzare quello che ci viene detto. Il video realizzato è un percorso lungo il quale è possibile raccogliere informazioni, metterle insieme, costruirsi un’idea senza che questa, per una volta, ci venga fornita già “montata”.