Il grido di un bambino a Vermicino che chiedeva aiuto: «Mamma, aiutami ad uscire»
Una situazione davvero drammatica quella di un bambino intrappolato in un maledetto budello buio ed umido, che piangendo grida: «Mamma, aiutami ad uscire». E lei, sua madre, una donna disperata che lo accarezza con le parole cercando di mascherare lo sconforto che sta provando: «Sono mamma, stai tranquillo, che vengono a prenderti». Nel luogo della sciagura c’è anche un padre semplice e coraggioso che comunica al figlio parole d’incoraggiamento: «Sono io, papà. Devi resistere, perché per salvarti ci vuole tempo. Il buco è stretto, nessuno può scendere da te. Abbiamo trovato un signore piccolo e magro, ma neanche lui può farcela. Devi aspettare, te lo dice papà. Da uomo a uomo». Parole che trasmettono nel piccolo fiducia.
Per molti il destino d’ognuno è già scritto fin dalla nascita, e i tentativi di soccorrere la povera creatura imprigionata sottoterra pare darne conferma. Restringimenti del canale, difficoltà di perforazione del terreno e il bambino che va sempre più giù nell’abisso. Le tensioni e le eccitazioni vissute delle persone in quei momenti pare il risultato di una pellicola di Alfred Hitchcock, ma purtroppo non si tratta di un’invenzione, si tratta di realtà.
L’unico vero e sensato reality show che c’è stato in Italia, è quello che la Rai dispose in diretta televisiva no stop a Vermicino nel giugno del 1981. Molti ricorderanno quei tre giorni in cui l’intero Paese si fermò e tutta la popolazione rimase con il fiato sospeso per le vicende di un bambino finito accidentalmente (almeno fino adesso) dentro un pozzo artesiano mal custodito. L’incidente di Vermicino andò a coincidere con i tempi duri che la Nazione stava vivendo, tempi in cui le cronache nazionali pullulavano di notizie: dagli scontri armati di piazza fra militanti di organizzazioni di estrema sinistra e forze dell’ordine alla catastrofe avvenuta in Irpinia, dal terrorismo che propagava all’attentato al papa Giovanni Paolo II, fino a giungere alla scoperta del virus dell’AIDS e altri fatti di cronaca ancora. Il fermento che stava vivendo la Nazione già da qualche anno si fermò, però, per tre giorni in via Sant’Ireneo, in località Selvotta, provincia di Roma.
Era la sera di mercoledì 10 giugno 1981 quando un bambino di solo sei anni, Alfredo Rampi detto Alfredino, si trovava a passeggio con suo padre Ferdinando e due amici del genitore, nella campagna circostante la seconda casa della famiglia, usata nel periodo di vacanza. Erano circa le 19.30 e stavano facendo ritorno a casa quando Alfredino chiese al padre il permesso di continuare il cammino da solo e papà Ferdinando glielo concesse senza potersi immaginare minimamente quello che di lì a poco sarebbe successo.
L’uomo, fatto poi ritorno a casa, si rese conto che il bambino non era ancora tornato e attese per circa mezzora prima di allarmarsi concretamente e mettersi alla ricerca del piccolo assieme a tutta la famiglia. Il tentativo nullo della ricerca, costrinse la famiglia Rampi a rivolgersi alle forze dell’ordine, che nel giro di una decina di minuti circa giunsero sul posto. Presero parte alla ricerca di Alfredino anche alcuni abitanti del posto, oltre all’ausilio di unità cinofile; ma gli sforzi furono vani.
La nonna del povero Alfredino fu la prima persona a parlare dell’esistenza di un pozzo artesiano nelle vicinanze e a manifestare il timore che suo nipote potesse esserci caduto dentro. Il pozzo venne trovato coperto da una lamiera fermata con due pietre, ma il brigadiere Giorgio Serranti, di cui ignorava l’esistenza di questo pozzo di recente realizzazione, pretese che il coperchio venisse rimosso. Come mise la testa all’imboccatura, riuscì a percepire i deboli lamenti del bambino. A quel punto partì il calvario che inchiodò l’intera Nazione alla TV per assistere alle operazioni di soccorso per il piccolo Alfredo Rampi.
Verremo a sapere più avanti che la lamiera sopra il pozzo era stato il proprietario dello stesso ad averla rimessa sopra, avendola trovata rimossa, chiaramente ignaro di tutto.
Le operazioni dei soccorritori si rivelarono estremamente difficili fin da subito e a quel tempo l’Italia non era neppure preparata per compiere interventi di soccorso di questo tipo, la Protezione Civile esisteva solo sulla carta e perciò mancavano basi e istruzioni ben definite. Le manovre furono così annaspate e al limite dell’improvvisazione. Assurdo è dover pensare che già a quel tempo in commercio nel mondo circolavano i primi personal computer mentre, un paese come l’Italia, non era ancora all’altezza non solo di avere a disposizione un reparto specializzato all’occorrenza, ma neppure vi era la cultura per mettere preventivamente in sicurezza le persone da un mostro di pozzo in quel modo.
Per prima cosa venne fatta scendere nel tunnel una lampada nel tentativo di localizzare il bambino e la prima stima rilevò che si trovasse bloccato a una profondità di 36 metri, ben al di sopra della profondità dal pozzo, forse la sua caduta era stata arenata da una curva o da una rientranza del tunnel.
Localizzata la profondità dove si trovava il bambino, fu presa la decisione di calare una tavoletta legata a una corda doppia, in modo tale di consentire ad Alfredino di aggrapparvisi per poter essere sollevato. Fu la madre ad incoraggiare il piccolo: «Alfredo, devi trovare la forza per salvarti. Devi prendere la corda che ti mandano e stringerla forte finché non ti tirano su». Il tentativo, però, fu nullo in quanto la tavoletta andò a impigliarsi in una rientranza del pozzo ad una profondità di 24 metri circa, assai al di sopra di dove si trovava la povera creatura. Nel tentativo poi di ritirarla su, come se non bastasse, la corda si spezzò e dunque il canale rimase completamente ostruito. Ciò, ovviamente, andò ad complicare ancora di più le operazioni di salvataggio. «Mamma, aiutami ad uscire», le grida del piccolo, un bambino lucido e molto intelligente.
Nella notte, allertata la televisione di Stato, giunse una troupe della Rai e piazzò una telecamera, facendo poi scendere dal cunicolo un’elettrosonda per consentire ai soccorritori di comunicare con il bambino. Sull’improbabilità che una persona potesse calarsi nel cunicolo, fu presa la decisione di scavare un tunnel vicino e parallelo al pozzo, da cui realizzare poi uno scavo orizzontale al di sotto di dov’era Alfredino.
La notizia del bambino raggiunse tutte le famiglie italiane e alle 4.00 del mattino dell’11 giugno si presentò sul posto un gruppo di speleologi del Soccorso Alpino con l’intenzione di farsi calare nel sottosuolo. Furono due i volontari che si calarono a testa in giù nel foro: il primo fu il ventiduenne Tullio Bernabei, caposquadra, e il secondo Maurizio Monteleone. Entrambi gli speleologi erano di corporatura snella, ma non a sufficienza per arrivare neppure a rimuovere la tavoletta.
Abbandonati temporaneamente i tentativi degli speleologi, per ordine del comandante dei vigili del fuoco Elveno Pastorelli, gli sforzi si concentrarono tutti nella perforazione parallela al pozzo; ma a causa delle avversità di un terreno in alcuni strati molto duro da scavare, i soccorritori si dovettero ripiegare nell’utilizzo di tre perforatrici. Nel frattempo, il piccolo veniva assistito, per quanto fosse possibile, dal primario di rianimazione dell’ospedale San Giovanni , Elvezio Fava, che gli controllava le condizioni di salute, anche perché Alfredino era affetto da una cardiopatia congenita in attesa di essere operata a settembre. Fu calata nel pozzo una flebo di acqua e zucchero allo scopo di dissetare il piccolo Rampi.
Alle 16.30 del 12 giugno intervenne sul luogo della tragedia il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, e la madre del piccolo Alfredino, Francesca Bizzarri, all’epoca 39enne, ebbe modo di parlare con lui e di sottolineargli la mancanza di squadre speciali per le varie emergenze e l’inadeguatezza di quelle presenti, neppure in grado di contenere i curiosi che si affacciavano al pozzo. Fu il giusto spunto per promuovere la Protezione Civile.
Lo stesso giorno, un semplice fattorino di 37 anni all’epoca dei fatti, di nome Angelo Lichieri, dopo essere rimasto per due giorni inchiodato davanti al televisore a vedere le vicende del povero Alfredino, prese la decisione di rendersi partecipe anche lui al tentativo di salvataggio del povero bambino. Con la scusa a sua moglie che sarebbe andato a comprare le sigarette, si precipitò a Vermicino. Si propose come volontario a Pastorelli e alle 23.50 si calò dentro il pozzo a testa in giù e vi ci rimase per oltre 45 minuti, ben oltre i limiti massimi di resistenza ipotizzati.
Riuscì a toccare il bambino e a togliergli il fango dagli occhi e dalla bocca. È lo stesso Angelo a raccontare di quei momenti ricchi di emozioni, a dire che mentre si trovava lì prometteva al bambino che non appena fossero usciti fuori gli avrebbe regalato una bicicletta e che gli avrebbe comprato una barchetta. «Mi hanno detto che sai pescare bene» gli diceva. E continuava nel suo racconto a dire che Alfredo emetteva quel rantolo che è ancora oggi presente nella sua testa…
Angelo Lichieri, l’eroe di Vermicino, non si arrendeva, era deciso a salvare il piccolo Alfredo Rampi a tutti i costi. «Parlavo e lavoravo per liberare la mano per poter infilare l’imbracatura» ha raccontato l’uomo. «Quando era pronto ho intimato: “tiratemi su!”. Loro, però, hanno dato uno strattone e il moschettone si è sganciato. Ho dunque provato a prenderlo sotto le ascelle ma anche allora davano degli strattoni impossibili. Alla fine ho provato a tirarlo dai polsi e ho sentito “track”. Gli avevo spezzato il polso sinistro e lui neanche si è lamentato. Mi sono sentito in colpa: “ha già tanto sofferto e ora sono arrivato io per rompergli anche il polso”. Ho fatto l’ultimo tentativo, l’ho preso per l’indumento, ma è caduto. Alla fine gli ho mandato un bacio e sono salito su». Il piccolo Alfredo cessò di vivere soffocato all’alba di sabato.