IL MOSTRO DI FIRENZE. Quando nei boschi scorreva la morte.

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di Roberto Fiordi

Era diventato un vero incubo, per genitori e ragazzi. Per oltre diciassette anni, Firenze ha vissuto nell’orrore del Mostro (così definito dai media), del Mostro di Firenze, che a sangue freddo assassinava coppiette in atteggiamenti intimi. Come un lupo mannaro, si aggirava sempre di notte e a luna piena, anche quando il cielo restava coperto dalle nuvole, nelle appartate campagne fiorentine in cerca di amanti. Li uccideva scagliando contro prima colpi d’arma da fuoco, poi coltellate  ed infine straziava i corpi delle vittime di sesso femminile. Scene da brivido, più che da film horror.

I genitori non si davano più pace al pensiero dei propri figli fuori da casa di notte e non chiudevano occhio fintantoché non li sentivano rientrare. Anche fra i giovani correva il panico, ma i giovani sono più spensierati e si dicono che proprio a loro una cosa del genere non può accadere. Per otto di queste coppie, però, è accaduto.

Correva l’anno 1968, era la notte fra 21 e 22 Agosto quando due giovani, in atteggiamenti flirtanti a bordo di una Giulietta bianca, nei pressi del cimitero di Signa, furono sorpresi da una calibro 22 Long Rifle Winchester, che esplose otto colpi da distanza ravvicinata uccidendoli. Si trattava di due segreti amanti, lui, Antonio Lo Bianco, muratore di ventinove anni, sposato e padre di tre figli, e lei, Barbara Locci, casalinga di trentadue, anche lei sposata e madre del piccolo Natalino Mele che stava dormendo proprio sul sedile posteriore della macchina. Il bambino, a seguito dell’omicidio, fu prelevato dall’auto, preso in braccio da un uomo, accompagnato in paese e lasciato dinnanzi a un’abitazione. Erano le due di notte quando il piccolo Natalino, che aveva appena sei anni, suonò il campanello di quella casa e disse di voler essere riaccompagnato a casa perché c’erano sua madre e suo “zio” morti in macchina. Stefano Mele, il marito della donna, manovale di quarantanove anni, fu la prima persona ad essere indagata. Il movente dell’accusa era la gelosia. Delitto passionale. Il signor Mele prima si dichiarò innocente ma poi si autoaccusò. Probabilmente si fece mettere in carcere con l’accusa di duplice omicidio per pulirsi dall’umiliazione di fronte alla gente dei molteplici tradimenti di sua moglie. Tuttavia, le dichiarazioni che aveva rilasciato non erano conformi col delitto, fra cui il finestrino da dove erano partiti i colpi. Altre invece concordavano, come il numero dei colpi partiti dall’arma e altri minuziosi particolari come la freccia della Giulietta ancora inserita. Chiamò in causa un certo Salvatore Vinci come la persona che gli aveva fornito la pistola e che l’aveva accompagnato sul luogo dell’omicidio. Dichiarò, sempre agli inquirenti, di avere poi gettato via la calibro 22 nel canale lungo il cimitero. L’arma non è mai stata ritrovata. In un’altra deposizione scagionò questo Salvatore e chiamò in causa il fratello, Francesco Vinci. Da quello che gli inquirenti furono poi in grado di raccogliere in paese, emerse che il signor Mele fosse stato succube della moglie e accondiscendente dei suoi tradimenti, al punto tale di avere addirittura ospitato in casa propria, per un certo periodo, questo Francesco e di essersi messo al servizio dei due amanti, andando al mattino a portare loro la colazione a letto. Atteggiamenti che fin da subito avevano mosso dubbi agli inquirenti, ritenendo non tanto attinente che soggetto privo di personalità come risultava essere stato Stefano potesse avere trovato la forza e il coraggio di commettere quel duplice delitto. I soliti dubbi venivano confermati anche dal fatto che non era capace neppure di adoperare l’arma. Tuttavia, fu tenuto in carcere con l’accusa di duplice omicidio.

Il caso della signora Locci e del signor Lo Bianco, fu ritenuto un caso di cronaca nera, all’epoca dei fatti la Nazione non era ancora preparata a certi fenomeni. In Italia non si erano ancora verificati casi di serial Killer prima d’allora; e comunque, ancora oggi, l’unico elemento che può condurre questo omicidio a quelli del Mostro di Firenze è la pistola.

La calibro 22 Long Rifle Winchester tornò a spare la sera del 14 settembre 1974 a Borgo San Lorenzo. C’era appena stato un temporale, il cielo era coperto dalle nuvole ma la luna era piena. Era sabato sera e una Fiat 127 era ferma e a motore spento in uno spiazzo nascosto da viti e cipressi con a bordo Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini che stavano amoreggiando, quando all’improvviso la poca luce che filtrava dal finestrino sinistro dell’auto fu otturata dall’ombra di un uomo. La musica che usciva dal mangianastri fu subito sopraffatta dai ripetuti spari della pistola che andarono a colpire cinque volte il giovane, uccidendolo subito e tre la ragazza che rimase ferita al braccio destro. Lei non poté fare nulla lo stesso, perché fu afferrata da due braccia, tirata fuori dall’abitacolo e finita con ben novantanove pugnalate scagliate con una ferocia inumana soprattutto sul petto. Coltellate meno brutali andarono poi a inciderle il pube; e a seguire un tralcio di vite a penetrarle la vagina.

7 giugno 1981. Era domenica mattina e un poliziotto fuori servizio stava passeggiando con suo figlio lungo una stradina stretta nei pressi di Scandicci, quando si accorse di una Ritmo ferma, posteggiata sotto un cipresso con il finestrino dalla parte del conducente frantumato. Andò a vedere e trovò il corpo senza vita di Giovanni Foggi. Fuori dall’auto c’era anche quello di Carmela De Nuccio. Il corpo della ragazza era riverso dentro un fosso. Era vestito, ma lungo la parte alta dei jeans che indossava c’era uno squarcio che partiva dalla gamba e arrivava alla cintura, da cui i carabinieri accorsi nel luogo hanno potuto constatare l’asportazione del pube. Una cosa incredibile, che aveva dell’inverosimile giacché non era mai successo un fatto del genere prima d’allora, almeno in Italia. Furono rinvenuti anche i bossoli dell’arma, appartenenti anch’essi a una Beretta calibro 22 LR, la stessa del ’74. Le indagini portarono a un autista della Misericordia, un certo Vincenzo Spalletti. Questi era un noto guardone, ma come lui ce n’erano molti altri a quei tempi a Firenze; il voyeurismo era una pratica diffusa anche fra le persone socialmente importanti. A inchiodare l’autista era stato il racconto che aveva rilasciato alla moglie e agli amici e conoscenti del bar che frequentava, dove aveva detto per filo e per segno i particolari sulla morte dei due giovani e soprattutto la mutilazione del pube della ragazza. Lo aveva fatto la domenica mattina prima che la notizia fosse uscita sui giornali.

Trascorsero poco più di quattro mesi che la stessa pistola tornò a far fuoco a Firenze e il coltello a fendere, come nei casi precedenti, i corpi delle due vittime. Questa volta a Calenzano, a pochi passi Prato. In una stradina immersa fra olivi e viti, non distante dal torrente Marina, una Golf Volkswagen nera era parcheggiata e i corpi privi di vita di Stefano Baldi e Susanna Cambi, lui ventisei anni e lei ventiquattro, giacevano fuori. Solito rituale degli altri, il pube della ragazza fu asportato con tre tagli secchi. A quel punto l’autista della Misericordia fu scarcerato.

Ma la mano del mostro non si era ancora fermata. Il 19 giugno 1982, a Montespertoli fece altre due vittime,  Paolo Mainardi, di ventidue anni e Antonella Migliorini di diciannove. I due giovani si trovavano a bordo della Fiat 147,  in uno slargo nascosto sulla Strada Provinciale del Virginio Nuova, quando due colpi infransero il vetro dell’auto e andarono a colpire le vittime. I colpi d’arma da fuoco non furono precisi, perché uno andò solo a ferire il conducente, che ce la fece a mettere in moto la macchina e partire; ma la tensione, la paura, il panico, la fretta, il destino, fecero in modo che Paolo finisse con le ruote posteriori nel fosso dall’altra parte della strada e rimanesse bloccato. Il mostro non esitò a sparare ai fari anteriori dell’auto e quindi sui ragazzi. All’arrivo dei soccorsi Paolo era ancora vivo, ma morirà in ospedale senza aver ripreso conoscenza. Questa volta però, il rito d’ablazione dei feticci non fu compiuto probabilmente perché l’auto si trovava in mezzo di strada. I bossoli ritrovati sul posto conducevano alla medesima arma.

A quel punto accadde che il maresciallo Fiori, che una quindicina d’anni prima era stato in servizio a Signa, rammentò il delitto del ’68 dei due amanti Locci e Lo Bianco; e alla riapertura del fascicolo, la comparazione dei bossoli confermò che a sparare era stata la medesima arma. Ecco così tornare in auge la figura di Francesco Vinci, pastore pluripregiudicato. Troppe anomalie, troppe coincidenze fecero in modo che venisse messo in stato di fermo. Con lui fu presa in considerazione anche la pista sarda, ovvero quella dell’Anonima sarda, date le strane amicizie e i legami con membri della stessa che lui aveva. Stefano Mele, che lo aveva chiamato in causa quattordici anni prima, stava ancora scontando la pena in carcere. Francesco Vinci, a quel punto, fu indagato  per tutti i duplici omicidi avvenuti nella provincia di Firenze, pure quello del ’68; ma dopo un anno circa che si trovava dietro le sbarre,  il Lupo Mannaro tornerà a colpire ancora.

Scandicci, 9 settembre 1983. Era venerdì sera e un furgone, Volkswagen T1, era fermo in uno spiazzo. A bordo c’erano due giovani turisti tedeschi, Uwe Rüsch e Horst Wilhelm Meyer, di ventiquattro anni ciascuno, studenti, che stavano distesi su un materasso, con l’autoradio accesa. All’improvviso sette colpi sparati con precisione dai finestrini laterali del mezzo li hanno raggiunti e freddati. L’arma del delitto era sempre la stessa, ma questa volta non è stato portato a compimento il cerimoniale d’amputazione perché si trattava di due maschi. Uno dei due portava i capelli lunghi e probabilmente era stato scambiato per una donna.

Francesco Vinci si stava trovando in carcere al momento che è avvenuto quest’altro duplice omicidio, pertanto non poteva essere stato lui a commetterlo e così le accuse ricaddero sul fratello e il cognato di Mele. Furono sufficienti pochi mesi, però, perché venissero anche loro rimessi in libertà, gli indizi nei loro confronti erano molto pochi.

Il 7 agosto 1993 fu ritrovato il corpo di Francesco Vinci privo di vita, incaprettato e rinchiuso in un bagagliaio di una Volvo data alle fiamme, assieme a quello di un certo Angelo Vargiu, nel Chianti. L’ipotesi che scattò subito fu quella di legami col Mostro di Firenze. Ma le modalità d’esecuzione fanno ritenere che si sia trattato di una vendetta scattata in ambienti malavitosi.

Domenica 29 luglio 1984, il capoluogo toscano si tinge ancora di rosso. Il giorno dopo un cronista annuncia: << La Toscana si è svegliata di nuovo con l’incubo del maniaco che sorprende e uccide le coppiette. Stanotte altri due fidanzati sono stati assassinati in provincia di Firenze, nel Mugello, presso Vicchio. >>

Si era trattato di Claudio Stefanacci, ventuno anni e Pia Gilda Rontini di diciotto. Appartati all’interno della Fiat Panda bianca, in un viottolo sterrato, stavano facendo l’amore quando il vetro del finestrino destro si frantumò e dalla distanza di meno di un metro un colpo calibro 22 andò a esplodere sul viso della ragazza. Un altro colpo sul braccio della povera Pia. Altri due colpi ravvicinati centrarono la testa di Claudio e il petto. Entrò in scena, come negli altri delitti, il coltello: due coltellate alla gola di Pia e dieci a Claudio; quindi tre tagli secchi al pube e l’esportazione del feticcio; e altri tagli portarono via il seno sinistro della donna.

Fu una telefonata anonima ad avvertire i carabinieri che arrivarono sul luogo dell’omicidio alle 03,45. I bossoli che rinvennero appartenevano alla calibro 22 Winchester, serie H.

8 settembre 1985, San Casciano Val di Pesa. Via degli Scopeti. In un boschetto, fra pini e cipressi, una coppia francese aveva montato la tenda per passarci la notte. Jean-Michel Kraveichvili, era un musicista di venticinque anni, e lei, Nadine Maurio, di trentasei, era commerciante e madre di due bambine piccole, recentemente separata dal marito. Stavano facendo l’amore quando improvvisamente la tenda fu tagliata dalla parte posteriore, mentre da quella anteriore piovvero dentro spari calibro 22 Winchester. Nadine morì sul colpo, mentre Jean-Michel, ferito, provò a scappare, ma qualcuno lo accoltellò alle spalle e lo uccise.

Il corpo della donna venne poi trascinato all’esterno, le tracce di sangue ritrovate per terra lo testimoniarono, quindi venne mutilato del pube e del seno sinistro e riposto dentro la tenda. Cosa strana fu quella che venne messo dentro il sacco a pelo come se stesse dormendo.

Un’altra cosa strana è quella che un paio di giorni dopo giunse una busta con dentro un pezzo di seno di Nadine, al sostituto procuratore che si occupava dei delitti del Mostro, Silvia Della Monica. L’indirizzo nella busta era stato scritto con lettere ritagliate dal giornale ed era partita da San Pietro a Sieve, Firenze.

Probabilmente il corpo della donna era stato sistemato a dovere dentro la tenda a posta per ritardarne la scoperta e far giungere prima la busta. Il corpo dell’uomo, invece, era stato abbandonato nel bosco. Ma un cercatore di funghi scoprì i corpi un paio d’ore prima che la busta giungesse in Procura.

Siamo giunti a otto coppie, sedici vittime. Ma dopo di questo, i delitti del Mostro di Firenze si sono fermati. Non certo le indagini…

  1. Immagine fonte Google

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