INDAGINI SUL MOSTRO DI FIRENZE. Superficialità investigative e fretta di concludere il caso hanno portato a molti errori.
di Roberto Fiordi
Un avvicendamento di crimini seriali hanno tappezzato profondamente di rosso le campagne toscane. Precisamente i dintorni di Firenze. Dal 1968 al 1985 sono intercorsi ben otto duplici omicidi firmati da mani di serial Killer, che hanno avuto per vittime giovani coppie appartate in atteggiamenti amorosi, generalmente all’interno del proprio mezzo di trasporto. Tutti quanti segnati da colpi d’arma da fuoco, Beretta calibro 22 LR Winchester, e da accoltellamenti sui corpi anche oramai cadaveri delle vittime, per poi procedere, in quattro di essi, pure al taglio del pube della donna con l’esportazione della vagina e del seno sinistro sugli ultimi due.
A questi vi si possono, forse, collegare altri delitti individuali e in altri luoghi fuori dalla provincia fiorentina. Se però tali delitti restano ancora legati al condizionale, l’imperativo si stringe intorno alla certezza che in tutti questi anni sono stati commessi molti errori nelle indagini sul Mostro di Firenze che hanno visto aprirsi le porte del carcere a persone innocenti.
Andando per ordine, il primo omicidio, quello del ’68, per molti anni era stato ritenuto un delitto di cronaca nera, dove venne sospettato e messo in carcere un uomo, Stefano Mele, di origine sarda e marito della prima vittima femmina, Barbara Locci, uccisa in atteggiamenti amorosi con il suo amante, Antonio Lo Bianco.
Due giorni dopo il delitto, il 23 agosto 1968, l’imputato fu sottoposto per oltre dodici ore a un interrogatorio nel quale lui stesso, dopo essersi proclamato innocente e aver gettato sospetti su alcuni amanti della moglie, confessò il delitto. Tuttavia, durante l’interrogatorio ci furono alcuni fondamentali elementi in grado di poter scagionare Mele dall’accusa di coinvolgimento all’omicidio, ma ne comparirono altri, altrettanto importanti, da poterlo disporre nella qualità di persona informata dei fatti.
Durante l’interrogatorio, dalla bocca di Stefano Mele, che più volte aveva cambiato la versione dei fatti, uscirono fuori anche il nome di persone che torneranno nuovamente in ballo quando l’inchiesta entrerà più sul vivo. Si trattava dei fratelli Vinci, Salvatore e Francesco, anch’essi di origine sarda e che erano stati amanti di sua moglie,
In quell’omicidio un bambino di sei anni, Natalino Mele, il figlio della donna uccisa, che stava dormendo sul sedile posteriore dell’auto quando avvenne il fatto, fu graziato e portato di fronte a una casa in paese, dove suonò in piena notte il campanello per chiedere assistenza. Questo bambino venne ascoltato dagli inquirenti e dopo diversi giorni ammise che era stato suo padre ad averlo preso in braccio e condotto di fronte a quell’abitazione. Fu allora che Stefano crollò e ammise di essere lui l’autore del duplice omicidio e di avere gettato la pistola, mai ritrovata, nel canale vicino al cimitero. Il tribunale di Perugia, due anni dopo, gli attribuì quattordici anni di reclusione, ritenendolo parzialmente incapace d’intendere e volere, e altri due per calunnia nei confronti dei fratelli Vinci.
A condurre le indagini era stato Antonio Caponneto, magistrato che successivamente sarà chiamato a Palermo a seguito dell’uccisione di Rocco Chinnigi, nel ruolo di capo nell’Ufficio istruttorio del tribunale di Palermo. E sarà lui a creare il pool antimafia.
Firenze non fece parlare più di sé per delitti sino il 14 settembre 1974, giorno in cui avvenne un altro duplice omicidio. Il secondo. A finire nel mirino del serial killer era stata una coppia appartata in una 127 che stava facendo l’amore, lei Stefania Pettini e lui Pasquale Gentilcore. Otto colpi della calibro 22 che aveva ucciso in precedenza la coppia Lo Bianco Lotti, tolsero la vita anche a questi ragazzi. Non solo, a questo giro il serial killer si scagliò sulla coppia con una raffica di coltellate, soprattutto sulla ragazza. Al ritrovamento dei due poveri giovani senza vita ci fu l’impressionante scoperta di un tralcio di vite inserito nel sesso di Stefania, che farà successivamente calare sospetti sulla matrice esoterica; ma secondo un’altra interpretazione, si era trattato semplicemente di oltraggio al corpo femminile, in considerazione del fatto che si trovavano vicini ad un vigneto. Sarà opportuno, forse, domandarsi se quel gesto sia da collegarsi o meno a quello che accadde qualche anno dopo, quando cioè furono manomesse le tombe dei due fidanzatini nel cimitero di Borgo San Lorenzo.
Tornando ai fatti, la borsetta della ragazza fu trafugata e sparso il contenuto per terra; ma dopo il ritrovamento mancavano all’appello alcuni oggetti. Il delitto fu attribuito a “ignoto maniaco sessuale” e le indagini si fermarono nonostante che un’amica di Stefania avesse testimoniato che il giorno avanti l’omicidio, Stefania stessa le aveva confidato di uno strano incontro avvenuto con una persona poco raccomandabile. Oltre alla testimonianza dell’amica di Stefania, ci fu la conferma da parte di un amico, titolare della scuola guida dove la ragazza stava conseguendo la patente di guida, che rivelò del pedinamento con la macchina da parte di un uomo mentre lei stava eseguendo una lezione di guida, il giorno avanti l’omicidio.
Le indagini ripresero poi sette anni dopo e precisamente il 7 giugno del 1981, ovvero il giorno successivo all’ennesimo delitto, dove a finire sotto i piombi del calibro 22 toccò a Carmela De Nuccio e Giovanni Foggi. Stessa modalità d’esecuzione, stesso accanimento sui cadaveri con il coltello da parte del serial killer. Durante i sopralluoghi vennero rinvenuti soltanto cinque bossoli degli otto sparati, con la lettera H di serie impressa sul fondello. Bossoli della stessa arma dei delitti precedenti e successivi. E anche in questa occasione, come in tutte le altre, alcuni bossoli erano mancanti. Fu quindi compiuto il rituale, valso per tutti gli omicidi che lo hanno permesso, quello di rovistare la borsa della giovane e spargere per terra il contenuto, questa volta senza però avere preso qualcosa.
Le indagini portarono ad un certo Vincenzo Spalletti, sposato e padre di tre figli. Faceva l’autista di autoambulanze presso l’Ospedale Misericordia di Montelupo Fiorentino. Era nota in famiglia e fuori la sua propensione al voyeurismo e perciò è molto probabile che avesse assistito con i suoi occhi alle scene del delitto e a tutto quanto accaduto dopo. Fra l’altro, quando era tornato a casa, aveva raccontato ogni cosa alla moglie e poi anche agli amici del bar la mattina seguente, quando ancora nessun giornale aveva riportato la notizia. A lui erano arrivati anche grazie ad alcune testimonianze che avevano affermato di aver notato la sua automobile, nella notte fra il 6 e il 7 giugno, aggirarsi nei pressi del luogo dove era avvenuto il duplice omicidio. Il 15 giugno fu così arrestato e mentre si stava trovando in carcere, chiuso nel suo mutismo, la moglie e il fratello ricevettero telefonate anonime che affermavano che presto Vincenzo sarebbe uscito dal carcere. E così fu, perché la notte del 23 ottobre di quell’anno si verificò ancora un altro duplice omicidio, non diverso dai precedenti, che lo scagionò dall’accusa. A quel punto il signor Spalletti sarebbe potuto essere un testimone molto importante alle indagini, per il riconoscimento dell’assassino, ma chissà come mai nel processo Pacciani e neppure in quello dei Compagni di merende, fu chiamato a dare la propria versione e passare quindi al riconoscimento.
Susanna Cambi e Stefano Baldi era stata la coppia di fidanzati a finire nel mirino del Mostro di Firenze. L’arma del delitto sempre la stessa, le cartucce ritrovate solo sette di nove sparate. Medesimo rituale con il coltello. Borsetta della ragazza aperta e contenuto sparso per terra.
Il giorno successivo al delitto, prima del ritrovamento dei cadaveri, una telefonata strana aveva raggiunto la casa della zia di Susanna chiedendo di voler parlare con la madre della ragazza. Ma a causa di un guasto nella linea, la chiamata fu subito interrotta. La cosa strana è, chi poteva mai aver fatto quella chiamata dal momento che erano in pochi a conoscere quel numero di telefono giacché era provvisorio e appartenente a un indirizzo nuovo? Un particolare misterioso e di non poco conto. Era un periodo che la madre della vittima e le sue due figlie si trovavano a essere ospiti da questa signora, che rivelerà, inoltre, che la voce del mittente della telefonata, era limpida e non aveva cadenze dialettali. L’avvocato della famiglia, dottor Nino Filastò, portò alla luce un altro elemento di non poco conto, ovvero che Susanna, pochi giorni prima che avvenisse l’omicidio, aveva rivelato a sua madre la presenza di una persona misteriosa che la pedinava. Addirittura una volta, mentre si stava trovando alla guida dell’auto in compagnia di sua madre, sembrerebbe che per evitare d’incontrare quella misteriosa persona avesse rischiato di provocare un incidente.
Dopo questo delitto nacque davvero la psicosi del Mostro. Fu intuito che questo non era un maniaco che agiva a caso e senza premeditazione, doveva trattarsi invece di un criminale che pianificava gli omicidi seguendo il medesimo rituale. Non restava che domandarsi chi fosse e perché lo facesse. Di certo si trattava di un maniaco sessuale, probabilmente il suo nome poteva essere legato a quello dei cosiddetti guardoni. La cosa certa era quella che l’Italia si trovava a che fare con un serial killer, cosa mai successa prima e perciò impreparata.
Il nome di Francesco Vinci tornò a solcare le scene del tribunale subito dopo il delitto dei fidanzati Antonella Migliorini e Paolo Mainardi, avvenuto il 19 giugno del 1982. Tornò in scena questo nome perché il maresciallo dei carabinieri Fiori scoprì il collegamento con i precedenti omicidi e dunque le accuse rilasciate da Stefano Mele. Anche se contro Vinci gli indizi erano piuttosto deboli, lui venne ugualmente posto in stato di fermo .
A scagionarlo dall’accusa di essere il Mostro di Firenze e a scarcerarlo fu il duplice delitto ai due studenti tedeschi, Jens-Uwe Rüsch e Horst Wilhelm Meyer, avvenuto il 9 settembre del 1983. Ci fu probabilmente un errore da parte del killer in quanto si trattava di due maschi, forse uno dei due confuso per una donna giacché portava i capelli lunghi.
A quel punto fu seguita da parte degli inquirenti la pista sarda, la pistola stessa entrava a pieno titolo a far parte di questa pista giacché risultava acquistata da un emigrante sardo, morto poi in Olanda. Le tracce dell’arma si erano perse a Villacidro, un comune della Sardegna, di cui erano originari i due fratelli Vinci.
Ecco finire in manette, nel 1984, Piero Mucciarinie e Giovanni Mele, cognato e fratello di Stefano Mele, entrambi accusati dallo stesso come partecipanti al delitto del ’68. A condurre il signor Mucciarini in carcere furono anche le dichiarazioni di Natalino Mele, oramai ventiduenne. A incastrare Giovanni, invece, oltre le dichiarazioni del fratello, fu il materiale da taglio che possedeva in casa per lavorare il sughero e il groviglio di corde, oltre al grosso coltello.
A scagionarli fu il settimo duplice omicidio: quello di Pia Rontini e Claudio Stefanacci. 29 luglio 1984.
Il padre di Pia, a seguito di quell’omicidio, s’impegnò appassionatamente nella ricerca dell’assassino. Questi ci mise tutto sé stesso nella ricerca della verità, arrivando a sacrificare lavoro, vita sociale e risparmi. Era giunto persino a pagare di tasca propria investigatori privati. Collaborò con gli inquirenti, e partecipò a tutte le udienze seduto in prima fila senza mai scomporsi.
Il caso Pacciani ebbe inizio l’11 settembre 1985, ovvero tre giorni dopo l’ultimo duplice omicidio avvenuto agli Scopeti, dove le vittime erano state due francesi, Nadine Mauriot e Michel Kraveichvili, accampati in una tenda a igloo. Il caso ebbe inizio a seguito di una lettera anonima giunta ai carabinieri che faceva il nome del contadino di Mercatale, Pietro Pacciani. Questi divenne poi il sospettato numero uno nel 1991, dietro interessanti sviluppi sulle indagini da parte della Squadra antimostro (SAM), squadra speciale che si occupava esclusivamente del Mostro, nata il 30/07/1984 e guidata da Ruggero Perugini. L’imputato era un uomo dal carattere depravato, iracondo, già noto alle forze dell’ordine per il delitto commesso nel 1951 ai danni dell’amante della sua ex-fidanzata. Aveva confessato in quel caso di essersi lasciato vincere da un’accecante ira subito dopo avere visto la sua ex denudarsi il seno sinistro, lo stesso che poi verrà inciso ed espiantato alle vittime del Mostro. Chiaramente questo non poteva bastare a inchiodare Pacciani, ma nel corso delle indagini saltarono fuori molti indizi che conducevano a lui: il ritrovamento del proiettile di una calibro 22 nel suo giardino, l’asta guidamolla della pistola del Mostro, inviata agli investigatori avvolta in un pezzo di panno identico a quello poi trovato in casa Pacciani, il portasapone e album da disegno di marca tedesca, riconosciuto poi come appartenuto ai due tedeschi uccisi all’interno del furgone. In casa Pacciani c’era addirittura un biglietto con su scritta la parola “coppia” e il numero di targa corrispondente a quello di una coppia uccisa. Altresì, Pacciani scriveva la parola Repubblica con una B sola, stesso errore grammaticale riportato nell’indirizzo compilato con lettere di giornale ritagliate e affrancare con della colla dietro una busta giunta nell’ ’85 alla Procura della Repubblica di Firenze contenente un frammento di seno. Errore di grammatica tanto banale che, secondo precise teorie che mettevano in relazione la pianificazione degli omicidi, un perfetto serial killer, o quasi, con una mente così perfettamente diabolica non avrebbe potuto commettere. Tuttavia sul banco vi erano però tanti elementi che conducevano a Pacciani, come ad esempio i luoghi dov’erano stati commessi gli omicidi che erano luoghi che avevano avuto a che fare con quell’uomo. Ma anche le intercettazioni ambientali compiute in casa sua puntavano contro di lui.
Durante le indagini sul caso Pacciani, ecco saltare fuori anche un dossier ai suoi danni fatto di abusi sui familiari che lo fece finire dentro, e quando il 30 ottobre del ’91 i PM Vigna e Canessa gli inviarono l’avviso di garanzia per i delitti del mostro, lui si trovava già in carcere. Dalle perquisizioni che furono poi fatte alla sua casa, il 29 aprile 1992, oltre che saltare fuori la prova regina del famoso bossolo calibro 22 Winchester, serie H, emersero anche due quadri, uno dei quali con immagini violente, che l’imputato ammetteva di avere disegnato e pitturato lui.
Le immagini del quadro riportavano un generale nelle sembianze di un centauro, anche se, l’altra metà, anziché essere cavallo era un asino. Lo stesso generale portava in evidenza il sesso femminile. L’immagine era del tutto astratta e di fronte a questa opera, esperti del settore: psichiatri simbolisti e criminologi, avevano asserito che si era trattato del frutto di una mente contraffatta, violenta, molto disturbata. Ecco poi in seguito saltare fuori il vero autore del quadro, un cileno di nome Christian Olivares, un quadro che molto probabilmente Pacciani aveva trovato in una discarica e che si era limitato a dipingere soltanto. Ma a parte questo, il quadro sarebbe stato dovuto essere preso in esame con maggiore accuratezze, ma la procura di Firenze si è limitata a un esame sommario, dimostrazione della superficialità investigativa da parte di essa, elemento che l’avvocato di Pacciani metterà al bando.
Nel sistema di come erano state condotte le indagini sul Mostro di Firenze, fu accerto più avanti, che erano state commesse molte omissioni, come nel caso del delitto dei due tedeschi nel 1983, da immagini di repertorio è possibile riscontrare il caos che vi era intorno al furgone, segno che non erano state messe le dovute barriere. Tutte le volte che veniva consumato un delitto, il Mostro rovistava dentro le borsette delle donne, e anche qui chissà come mai non sono mai prese impronte digitali. Nell”84, dentro la Panda di Claudio Stefanacci e Pia Rontini fu ritrovata la traccia di un ginocchio ma nessuno mai ha saputo spiegare se fosse stata lasciata dal Mostro o da uno degli agenti intervenuti. Nell’ultimo delitto dell’85 fu ritrovato un guanto da chirurgo. Le indagini si spostarono nell’immediatezza su medici o infermieri, successivamente verrà fuori che era appartenuto a un agente della scientifica che lo aveva abbandonato.
16 gennaio 1993, Pacciani fu arrestato con l’accusa di essere il Mostro. Il 1 novembre 1994 la sentenza del tribunale di Firenze lo condannò all’ergastolo. La tesi del PM Paolo Canessa sosteneva che l’imputato, Pietro Pacciani, fosse stato il solo assassino a compiere almeno sette degli otto duplici omicidi e le successive amputazioni alle donne. Questa tesi fu accolta dalla Corte d’Assise presieduta da Enrico Ognibene. Qualche tempo dopo, però, la tesi del Mostro che agisse in solitudine venne smontata dalla procura. Tuttavia il verdetto fu ribaltato il 13 febbraio 1996. La Corte d’appello di Firenze assolse l’imputato per non aver commesso il fatto. Pacciani fu dunque scarcerato. A quella sentenza la moglie Angiolina si separò dal marito e lasciò la casa. Il 12 febbraio 1998, Pacciani morì in solitudine e in circostanza misteriose. Inizialmente sembrava essere stato stato un infarto a portarlo via, ma più avanti verrà scoperta l’assunzione eccessiva di un farmaco fatale a chi portatore come lui di diabete e inoltre cardiopatico.
Nel frattempo quattro testimoni avevano dichiarato d’avere visto sì Pacciani uccidere i ragazzi francesi, ma assieme a lui c’era almeno un’altra persona, e venne indicato Mario Vanni. Fra i quattro testimoni c’era anche Giancarlo Lotti, il quale risulterà essere non soltanto un testimone. Questi conosceva molto bene i due imputati e li frequentava anche. Durante l’interrogatorio cadde continuamente in contraddizione, al punto che risulterà pure lui fare parte dei serial killer fiorentini.
Dalle indagini verrà alla luce un mondo tutto sinistro dietro i delitti del Mostro, un mondo fatto di prostitute, pervertiti, protettori, case rurali abbandonate, entro le quali si svolgono cose inquietanti…
Pacciani e Vanni furono condannati all’ergastolo, mentre Lotti a trent’anni. Durante il processo il Tribunale aveva assunto, in alcune occasioni, il ruolo di teatrino comico, occasioni che avevano avuto per protagonista Vanni. In più occasioni Mario aveva dato modo di far sorridere per le sue dichiarazioni anche gli imputati stessi. Vanni si era dimostrata una persona ostile nei confronti dei giudici, collerica, dovuto forse all’età, all’alcool. Tuttavia sono tutti e tre morti. Ma di Pacciani ci sono ancora sospetti che fosse stato ucciso da qualcuno.
Molte cose portano a pensare che dietro di loro ci fosse la mano dell'”Innominato”. Figure potenti capaci forse di guidare a pro loro anche le indagini poliziesche.
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