Lo schwa (ə)? No, grazie. Pro lingua nostra
L’Edicola delle notizie, vi propone oggi un interessante spunto di riflessione. La discriminazione di genere si combatte con una e rovesciata? Il nostro pensiero è che è più efficace agire con il rispetto, accogliendo tutte le differenze. Solo l’evoluzione culturale nel quotidiano può farci comprendere le ragioni dell’ uguaglianza. Di seguito la petizione promossa tramite Change. org da Massimo Arcangeli in difesa della lingua italiana.
Siamo di fronte a una pericolosa deriva, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l’italiano a suon di schwa. I promotori dell’ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto, pur consapevoli che l’uso della “e” rovesciata” non si potrebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico, predicano regole inaccettabili, col rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche.
I fautori dello schwa, proposta di una minoranza che pretende di imporre la sua legge a un’intera comunità di parlanti e di scriventi, esortano a sostituire i pronomi personali “lui” e “lei” con “ləi”, e sostengono che le forme inclusive di “direttore” o “pittore, “autore” o “lettore” debbano essere “direttorə” e “pittorə”, autorə” e “lettorə”, sancendo di fatto la morte di “direttrice” e “pittrice”, “autrice” e “lettrice”. Ci sono voluti secoli per arrivare a molti di questi femminili. Nel latino classico “pictrix”, come femminile di “pictor”, non esisteva. Una donna che facesse la pittrice, nell’antica Roma, doveva accontentarsi di perifrasi come “pingendi artifex” (‘artista in campo pittorico’).
C’è anche chi va ben oltre. Gli articoli determinativi “il”, “lo”, “la”, poiché l’italiano antico, in usi che oggi richiedono “il”, poteva prevedere al maschile singolare la variante “lo”, si pretende che convergano sull’unica forma “lə”, e i rispettivi plurali (“i”, “gli”, “le”) che confluiscano in “l3”, col secondo carattere che non è un 3 ma uno schwa lungo. Entrambi i segni, lo schwa e lo schwa lungo, sono perfino finiti in ben 6 verbali redatti da una Commissione per l’abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia.
Lo schwa e altri simboli (slash, asterischi, chioccioline, ecc.), oppure specifici suoni (come la “u” in “Caru tuttu”, per “Cari tutti, care tutte”), che si vorrebbe introdurre a modificare l’uso linguistico italiano corrente, non sono motivati da reali richieste di cambiamento. Sono invece il frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell’inclusività. Lo schwa, secondo i sostenitori della sua causa, avrebbe anche il vantaggio di essere pronunciabile. Il suono è quello di una vocale intermedia, e gli effetti, se non fossero drammatici, apparirebbero involontariamente comici. Peculiare di diversi dialetti italiani, e molto familiare alla lingua inglese, lo schwa, stante la limitazione posta al suo utilizzo (la posizione finale), trasformerebbe l’intera penisola, se lo adottassimo, in una terra di mezzo compresa pressappoco fra l’Abruzzo, il Lazio meridionale e il calabrese dell’area di Cosenza.
Firmate qui, se condividete questo appello, indicando il vostro nome e cognome, la vostra città di residenza e la vostra professione
Massimo Arcangeli, linguista e scrittore, Ordinario di Linguistica italiana, Università di Cagliari
Angelo d’Orsi, storico e scrittore, già Ordinario di Storia del pensiero politico, Università di Torino
Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, già Ordinario di Storia della Lingua italiana, Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”
Edith Bruck, poetessa e scrittrice
Luca Serianni, professore emerito, già Ordinario di Storia della Lingua italiana, Sapienza Università di Roma
Alessandro Barbero, storico e scrittore, Ordinario di Storia medievale, Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”
Barbara De Rossi, attrice e conduttrice televisiva
Cristina Comencini, regista e scrittrice
Giovanna Ioli, italianista
Massimo Cacciari, filosofo, professore emerito, già Ordinario di Estetica, Università Vita-Salute San Raffaele di Milano
Ascanio Celestini, attore, regista, scrittore
Cristina Nessi, italianista
Michele Mirabella, regista, autore, giornalista
Francesco Sabatini, professore emerito di Linguistica italiana, Università Roma Tre, presidente emerito dell’Accademia della Crusca
Costanza Zavanone, già docente di Italiano, vicesindaca e assessora alle Pari opportunità
Paolo Flores d’Arcais, filosofo, direttore di “MicroMega”
Gian Luigi Beccaria, professore emerito, già Ordinario di Storia della Lingua italiana, Università di Torino
Isabella Francisci, redattrice editoriale, responsabile area Scienze Umane presso FrancoAngeli
Stefano Carrai, letterato e poeta, Ordinario di Letteratura Italiana, Scuola Normale Superiore
Paolo Desogus, titolare di Letteratura italiana, Università di Parigi La Sorbona
Alberto Crespi, giornalista, ufficio stampa Cinecittà, conduttore di “Hollywood Party” (Rai Radio 3)
Alfredo Luzi, già Ordinario di Letteratura italiana contemporanea e docente incaricato di Storia della Lingua italiana, Università di Macerata
Amedeo Feniello, storico, Università dell’Aquila
Rino Caputo, già Ordinario di Letteratura italiana, Università di Roma “Tor Vergata”
Yasmina Pani, insegnante e divulgatrice
Renato Minore, poeta e scrittore
Antonello Fabio Caterino, docente universitario e linguista forense
Lucio Russo, matematico e storico della scienza, già professore ordinario di Calcolo delle probabilità, Università di Roma “Tor Vergata”
Fabio Minazzi, Ordinario di Filosofia della scienza, Università degli Studi dell’Insubria (Varese)
Ivano Paccagnella, professore emerito, già Ordinario di Storia della Lingua italiana, Università di Padova
Francesco Coniglione, già Ordinario di Storia della Filosofia, Università di Catania
Ettore Boffano, giornalista
Schwa, i dieci motivi per cui ho promosso la petizione contro la vocale ‘inclusiva’
3. Natura destrutturante dell’innovazione. Lo schwa non è un semplice neologismo. È un corpo estraneo che viola irrimediabilmente le regole ortografiche e fono-morfologiche della nostra lingua, e immetterlo in un documento prodotto da un’amministrazione centrale dello Stato pubblico è un precedente di una gravità inaudita. Autorizza chiunque, d’ora in poi, a redigere un atto pubblico in emoji o in volgare duecentesco, o magari a disseminarlo di ke, xké o qlc1 (invece di che, perché e qualcuno).
4. Disorientamento normativo. Gli “sperimentatori” dello schwa, coscienti dell’impossibilità di spalmarlo in un testo in maniera uniforme e sistematica, predicano regole grammaticali “elastiche”. Nella trascrizione di un’intervista al Corriere della Sera(14 novembre 2021) l’eco-filosofo americano Timothy Morton ha reclamato, per rispetto della sua identità non-binary, la giusta marca di genere, e l’intervistatrice l’ha così riportato nel testo come filosof*. Un qualunque nome – in italiano – si porta però dietro i necessari accordi grammaticali (fra articoli, preposizioni articolate, pronomi, aggettivi e participi passati), e poteva uscirne, al limite, una premessa all’intervista di questa destabilizzante fattura: Lə filosofə non binariə americanə Timothy Morton è statə irremovibile, ha voluto che ci rivolgessimo a ləi come stiamo facendo.
5. Illegittima pretesa di una minoranza. Una cosa è chiedere al nostro interlocutore di venirci in qualche modo incontro, con le forme e le parole più adatte e rispettose possibili, se ci siamo scoperti portatori di un’identità incerta o fluttuante, un’altra cosa è pretendere di metter mano alle norme linguistiche di un’intera comunità nazionale perché soggiacciano alla volontà di pochi.
6. Estensione all’italiano parlato. Trasferire lo schwa al parlato, stante la limitazione posta al suo utilizzo (la posizione finale), trasformerebbe l’intera penisola in una terra di mezzo compresa pressappoco fra l’Abruzzo, il Lazio a sud di Roma e il calabrese dell’area di Cosenza. Sarebbe la rivincita dell’Italia meridionale e mediana contro il modello normativo tosco-fiorentino. Un’idea magari simpatica, ma peregrina e farsesca.
7. Cancellazione dei femminili. Se l’unanime volontà dei membri della Commissione universitaria era di dare cittadinanza, nei loro verbali, anche al genere femminile, evitando il maschile sovraesteso, sarebbe bastato riferirsi ai candidatie alle candidate, agli autori e alle autrici, e così via, o si poteva parlare di persone e chiuderla lì. Plurali inclusivi come autorǝ o coautorз, anziché contrastare davvero i maschili autori e coautori, spediscono di fatto in soffitta i femminili autrici e coautrici.
8. Aggravamento di disturbi neuroatipici. Il 4 maggio 2021 il ministro francese dell’Educazione nazionale, Jean-Michel Blanquer, ha inviato una circolare ai direttori amministrativi centrali, ai provveditori agli studi e al personale ministeriale per vietare alcune forme inclusive colpevoli, specie ai danni di allievi dislessici, di complicare la lettura e l’apprendimento dell’idioma nazionale.
9. Danni ai pubblici doveri di trasparenza linguistica. Nel 2017 un’altra circolare francese (22 novembre), diramata dal primo ministro Édouard Philippe, aveva invitato i membri del governo a rinunciare all’écriture inclusive, nei documenti ufficiali destinati al pubblico, per non pregiudicarne l’intelligibilità e la chiarezza.
10. Aumento del disordine prodotto dalla moltiplicazione incontrollata delle marche di genere. La proliferazione delle pensate ambigenere, agenere o antigenere è ormai incontrollata: Car* collega, Caro/a collega, Car@ collega, Caro-a collega, Caro(a) collega, Carx collega, Caro.a collega, Caro·a collega, Car’ collega, ecc. Al plurale? Car* collegh*, Carə colleghə, Cary colleghy, Carei colleghei, Carie colleghie, Carз collegз, ecc. C’è anche Caru tuttu. Siamo tutti sardi, friulani, discendenti di compare Turiddu?
L’emancipazione grammaticale non passa per una e rovesciata
di Cristiana De Santis*
La petizione “pro lingua nostra” (contro lo schwa) lanciata dal linguista Massimo Arcangeli ha rilanciato il dibattito sull’uso di simboli che dovrebbero rendere la nostra lingua più “inclusiva”. Prima di condannarli, proviamo ad analizzarli dal punto di vista di una grammatica ragionevole. Per fornire appigli a chi voglia scegliere con responsabilità e cognizione di causa, nel rispetto delle regole comuni e a tutela di chi è più debole*.
Una premessa è d’obbligo: sono una grammatica italiana, anche se non parlo come un libro stampato. Come studiosa della nostra lingua ho lavorato e lavoro alla frontiera tra norma e usi della lingua, con attenzione ai fenomeni dell’italiano in movimento e alle esigenze dell’apprendimento e insegnamento dell’italiano, oggi.
La prospettiva “ragionevole” con cui guardo alla lingua è profondamente influenzata, oltre che dalla letteratura linguistica e filosofica, dalla mia lettura di Gramsci. Considero la norma linguistica il frutto di un comune accordo, il cui rispetto tutela chi è più debole, e guardo alla grammatica che la descrive come a uno strumento di possibile emancipazione. A patto che sia scientificamente fondata e alleggerita del peso sia delle misconcezioni (accumulatesi in secoli di trasmissione dogmatica) sia delle semplificazioni veicolate oggi dai social media (in modo più pervasivo e non necessariamente più democratico).
Questa premessa mi pare necessaria non tanto in funzione “autoritativa”, cioè per dare valore a quanto sto per dire, ma per chiarire il mio posizionamento: parlo in quanto donna (consapevole che le condizioni che fino a ieri rendevano la mia parola meno credibile la legittimano oggi, almeno all’interno del dibattito in questione); parlo in quanto studiosa (con la serietà e la responsabilità che ciò comporta, a prescindere dal genere di appartenenza); parlo in quanto persona caratterizzata da un certo tipo di sensibilità e da convinzioni che ritengo opportuno esplicitare.
In questo intervento guarderò a lati positivi e negativi delle proposte fatte da chi vorrebbe rendere la lingua italiana più rispettosa delle differenze di genere, scegliendo il punto di vista di una linguista e insegnante responsabile, che cerca di guardare con pari sensibilità e sensatezza alle richieste di “manipolazione” linguistica finalizzate alla (in)visibilità di genere. Come rimanere in ascolto del bisogno di riconoscibilità di cui sono manifestazione, evitando di irrigidirsi in una normatività insofferente, e provare a rilanciare la sfida innalzando il livello del dibattito?
Di che genere stiamo parlando?
In primo luogo, intervenendo nel dibattito, bisognerebbe prendere in esame (possibilmente senza pregiudizi ideologici) il «genere» inteso come categoria socioculturale, distinguendolo dal concetto di «sesso (biologico)»: si tratta di un’accezione relativamente “nuova” del termine genere, frutto di un calco dell’ingl. gender, accolta dai dizionari italiani più aggiornati. Un esame delle diverse definizioni circolanti del termine consentirà di mettere a fuoco i temi al centro del confronto tra generazioni. L’accezione di ‘appartenenza all’uno o all’altro sesso, spec. con riferimento al contesto culturale o professionale dell’individuo: discriminazioni di genere’ (Zingarelli), che ha ispirato tante azioni politiche per le pari opportunità, è la stessa cui fanno riferimento oggi le comunità militanti per i diritti civili? O ciò di cui si dibatte è piuttosto il concetto di identità di genere, locuzione registrata dal nuovo De Mauro e così definita dal vocabolario Treccani: ‘la costellazione di caratteri […] che definiscono il genere in sé stesso in quanto posseduto, accettato e vissuto dall’individuo nella storia familiare da cui proviene e nella società in cui vive’? Un anglismo, ancora una volta, benché nascosto dalla perfetta italianizzazione della locuzione.
Analogamente, bisognerebbe distinguere il genere come categoria socio-culturale dalla categoria grammaticale di «genere», che in italiano oppone Maschile e Femminile e si manifesta attraverso la differenziazione di forme pronominali e di desinenze nominali, oltre che nei meccanismi dell’accordo (per esempio tra il nome e l’articolo che lo determina o l’aggettivo che lo modifica). Il genere Neutro (di cui si reclama il bisogno) esisteva in latino, è vero, ma era usato prevalentemente per distinguere ciò che è inanimato da ciò che è animato, ed è scomparso per morte naturale nella “catastrofe” che ha portato alla nascita dell’italiano. Il maschile si è presto imposto, anche perché statisticamente più diffuso, affiancando alla funzione marcata rispetto al genere (maschile come opposto al femminile) quella non marcata rispetto al genere (maschile generico o inclusivo). Si è discusso e si discute della regola che prevede, in presenza di parole di genere diverso, l’accordo al maschile plurale: esistono in effetti altre possibilità, come l’accordo di prossimità o quello di maggioranza, esplorate in altri momenti storici o in altre lingue. Ma non dobbiamo dimenticare che il maschile generico, per quanto frutto di una convenzione, viene acquisito come forma indipendente ed è spontaneamente applicato nel parlato: scegliere di eluderlo vuol dire costringersi a complesse acrobazie linguistiche quando si parla e, nello scritto, a manipolazioni che possono generare incomprensioni.
Rimanendo nel territorio del singolare (d’altra parte, il genere è una proprietà individuale), dobbiamo tenere presente in primo luogo che nella lingua maschile non vuole dire necessariamente ‘del maschio’ né femminile ‘della femmina’ (questa identificazione automatica è una banalizzazione frutto di un pregiudizio realistico che nulla ha a che vedere con la grammatica). In secondo luogo, la categoria del genere si manifesta in modi complessi, non riducibili all’opposizione di desinenze (come –o/-a) nella flessione di nomi, articoli o aggettivi. A livello morfologico, infatti il genere grammaticale agisce anche nella formazione delle parole (con l’alternanza di suffissi in parole come let-tore/let-trice, per esempio); in molti casi, inoltre, la codifica del genere non è affidata alla morfologia del nome, ma dell’articolo che lo determina (il parlante, la parlante). A livello sintattico, poi, la selezione delle forme finalizzata all’accordo delle parole (il bravo lettore, la brava lettrice) deve interagire con la selezione delle diverse varianti a scopo eufonico (l’abile lettore, il buon lettore).
Di fronte a soluzioni come allǝ lettorǝ o lз lettorз (presenti in un articolo di questo stesso Portale) si può obiettare che lettorǝ rimane un nome maschile, anche se ha nascosto la coda, e che lз lettorз è una sequenza priva di eufonia oltre che di grammaticalità (che peraltro genera omofonia con l’elettore). Quanto al nuovo pronome “non-binario” lǝi citato nel testo, la fragilità della proposta appare subito evidente se consideriamo la complessità del nostro sistema linguistico, che per la funzione di pronome soggetto necessita di forme adatte a comparire in posizione tonica (sede preclusa alla vocale indistinta) e richiederebbe comunque altre forme oltre a quella funzionante come soggetto (si tratterebbe di sostituire non solo lui/lei, ma gli/le e la/lo).
Decidere di agire sulla terminazione o sul corpo delle parole per occultare il genere, in ogni caso, non equivale a intervenire solo sull’ortografia (non si tratta di cambiare una lettera, sostituendola con un simbolo più “neutro”): vuol dire intaccare in profondità la morfologia della nostra lingua, smagliandone anche la sintassi (che non può prescindere dalla regola dell’accordo) e la testualità (l’accordo delle parole, anche a distanza, è uno dei requisiti della buona formazione dei testi perché contribuisce alla coesione, cioè alla compattezza del discorso).
Sarebbe comodo, certo, pensare di estendere un espediente ‘semplice’ (facilmente accessibile oramai sulle tastiere alfanumeriche) per risolvere i nostri problemi di (in)tolleranza e convivenza civile, se non ci fosse una controindicazione tanto forte da agire come dissuasore: non solo avalleremmo una soluzione semplicistica, ma ci sottrarremmo alle regole grammaticali della nostra lingua, acquisite in modo libero e spontaneo da ogni parlante madrelingua.
A differenza infatti dei femminili dei nomi di professione e carica come sindaca, ministra, architetta, ingegnera, formati secondo le regole della nostra lingua e perfettamente grammaticali (per quanto “nuovi” possano suonare alle nostre orecchie di parlanti), l’occultamento delle desinenze costituisce una forzatura del sistema. Forzatura che – nell’alimentare il nostro senso di appartenenza a una comunità ristretta in cui ci riconosciamo (di militanti per i diritti civili o di simpatizzanti verso la causa), o la nostra “distinzione sociale” (mostrandoci conformi alla “correttezza” sociale e politica imperante) – ci esilia dalla comunità più ampia di parlanti.
D’altra parte, come è stato notato, l’uso non omogeneo e incoerente dei simboli non alfabetici (come l’asterisco o il cosiddetto schwa nei testi che lo adottano) mostra da sé i limiti dell’operazione. Nell’uso che viene fatto dello schwa, a rigore, non si potrebbe neppure parlare di simbolo: si tratta più propriamente di un logo linguistico, dal momento che manca la corrispondenza con un suono effettivamente realizzato nella lettura (per questo motivo, qui e altrove, si parla di “e rovesciata”). Non è possibile pronunciare un asterisco; quanto allo schwa, realizzare il suono indistinto indicato dal simbolo fonetico avrebbe come risultato quello di portare progressivamente al troncamento delle parole che pronunciamo, rendendole irriconoscibili – peraltro in un contesto comunicativo (il parlato) che è meno pianificato dello scritto e che non permette di tornare indietro in caso di errore o di incomprensione. Che le proposte più discusse trovino un loro naturale limite di applicazione nella lingua parlata – che è la “natural favella”, la “lingua viva e vera”, attraverso cui passano i nostri scambi quotidiani – dovrebbe farci fermare e riflettere.
Usare una lingua rispettosa del genere e dei generi non vuol dire usare una lingua eslege e agrammaticale, ma sfruttare al meglio le risorse della lingua facendo proposte coerenti e sostenibili, sapendo dove collocare il limite degli interventi.
Senza generalizzare né “genderizzare”
In questo testo ho scelto volutamente di ricorrere a costruzioni che aggirano la marcatura di genere per mostrare come si possa, usando la lingua responsabilmente e nel rispetto della grammatica, parlare di genere senza forzature banalizzanti. Chi, essendo sensibile al tema dei diritti civili, preferisce questa strada a quella dell’occultamento delle desinenze con vari stratagemmi grafici lo fa non per conservatorismo o per purismo, ma nella convinzione che non si possono eludere le regole che presiedono alla costruzione dei nostri discorsi senza renderli incomprensibili a quella parte della popolazione che non ha un pieno dominio del codice (chi non è madrelingua, per esempio) o ha un accesso limitato alla varietà scritta o parlata della lingua (per situazioni di cecità, sordità, dislessia e altre forme di neurodiversità). Tutte queste persone, che hanno diritto di accedere ai testi e ai discorsi in ogni situazione comunicativa, beneficiano peraltro del trattamento automatico della lingua tramite programmi di sintesi e riconoscimento vocale, traduzione immediata ecc. che presuppongono la riconoscibilità delle parole e la loro analisi morfologica ai fini dell’etichettatura o tagging. D’altra parte, anche le nostre semplici ricerche sul web, nonché i suggerimenti che riceviamo in caso di errori di digitazione, funzionano grazie a tecnologie linguistiche cui ogni abile utente della rete farebbe fatica a rinunciare.
Se non vogliamo che la nostra lotta contro la xenofobia e l’abilismo, oltre che contro il sessismo, appaia come un pretesto utile per alzare la voce, non possiamo ignorare queste istanze.
Chi includiamo nella ‘lingua inclusiva’, e chi escludiamo?
Quando usiamo un linguaggio “inclusivo” dovremmo chiederci di quali diritti stiamo promuovendo la visibilità, e a danno di quali altri. Non si tratta di giudicare belle o brutte, buone o cattive le soluzioni che occultano il genere grammaticale rendendo irriconoscibili e irrelate le parole, ma di ritenerle sostenibili o insostenibili. Non si tratta di mettere al bando sedicenti “esperimenti”, ma di valutarne le conseguenze quando le sperimentazioni escono dall’uso militante e della comunicazione scritta personale. Compromettendo i diritti delle minoranze meno rumorose, tra cui rientrano anche “i minori” che vorremmo formare a un dominio sicuro del codice scritto, oltre che a un immaginario ricco e non stereotipato.
Come scrive il neuroscienziato Stanislas Dehaene in Imparare (2019), «Per imparare a leggere, solo l’allenamento fonetico, che richiama l’attenzione sulla corrispondenza tra lettere e suoni, attiva il circuito della lettura e consente di imparare in modo efficace».
Salvaguardare la consistenza grafica delle parole, dunque, è una condizione necessaria per garantire l’apprendimento della lettura, nonché la fluidità nella lettura adulta (che si appoggia sul riconoscimento immediato delle parole attraverso le lettere iniziale e finale). Una ragione in più per frenare gli entusiasmi nei confronti delle proposte gender-fair di natura “creativa” che, offuscando le desinenze, compromettono la leggibilità dei messaggi scritti. Ciò accade in particolare quando non ci si limita a inserire asterischi o altri simboli in luoghi “sensibili” del testo – come l’intestazione o la fine di un messaggio o di una conversazione (car* collegh*, ciao a tutt*) – ma si pretende di estenderli a tappeto (o ad libitum) senza preoccuparsi del tipo di testo con cui si ha a che fare e della coerenza della scelta: sottovalutando peraltro le conseguenze politiche di un gesto che, più che valorizzare le differenze, le nasconde. E finisce, anche nel discorso pubblico, per occultare le disuguaglianze, che nella nostra società non riguardano solo l’appartenenza di genere.
Una intersezionalità che non faccia i conti con la stratificazione sociale e culturale della popolazione e con la nostra storia (anche linguistica) rivela i propri limiti, prima che quelli del mondo patriarcale che vorrebbe combattere.
Come ha ben mostrato Andrea Moro nel volume La razza e la lingua (2019), appellarsi poi alla teoria (scientificamente molto discussa) del “relativismo linguistico” per giustificare le forzature del sistema è un’ipotesi poco attraente per chi voglia “decolonizzare” il proprio pensiero e combattere il razzismo insieme con il sessismo. Del resto, anche uno dei padri del relativismo, il linguista (più evocato che letto) Edward Sapir, scriveva: “Nuove esperienze culturali rendono spesso necessario ampliare le risorse di una lingua, ma tale ampliamento non è mai un’aggiunta arbitraria ai materiali e alle forme già esistenti; non è che un’ulteriore applicazione dei principii già in uso”.
Per una lingua non museificata, non autoritaria
Non possiamo tacere infine che anche simboli e parole “identitarie” brandite come armi e usate in modo indistinto possono diventare strumento di offesa, oltre che di difesa, e aprire la strada a un “linguaggio autoritario” non meno sprezzante e intollerante di quello che vorremmo contrastare, capace di imporsi con la forza del conformismo culturale. Con il rischio di trasformare una nobile causa in una moda linguistica da sfruttare commercialmente, come mostrano gli esempi di gender washing messi in atto da aziende e istituzioni a scopo di autopromozione.
Per contrastare queste derive autoritarie possiamo solo appellarci alla responsabilità individuale e all’affezione verso l’italiano per la capacità che ha di garantire a ogni parlante quel senso di appartenenza a una comunità che tanta parte ha nella costruzione della nostra identità (altrimenti, perché fare la fatica di continuare a parlare e scrivere in una lingua ‘antieconomica’ come la nostra?).
Rispettare la lingua comune è un dato imprescindibile se vogliamo essere compresi e rispettati. E rispettare una lingua vuol dire in primo luogo riconoscerne la dimensione ‘altra’: non trattarla alla stregua di un corpo individuale sul quale possiamo agire in base al nostro desiderio, ma come dispositivo simbolico, che ci impone di passare le nostre scelte al vaglio della norma condivisa dall’intera comunità di parlanti. Non ha senso, per esempio, dire che la lingua è “binaria”, come se fosse una persona con un orientamento sessuale definito: la lingua è un sistema astratto e come tale si spiega con la lingua – “la grammatica non deve rendere conto di nessuna realtà”, ha scritto Ludwig Wittgenstein.
L’uso linguistico individuale, insomma, deve scendere a patti con l’uso sociale per non diventare abuso. Solo a questa condizione, del resto, la lingua può rimanere una fonte inesauribile di mediazioni: si tratta di trovare un terreno di mediazione tra il nostro diritto all’autodeterminazione e alla libera espressione da una parte e le esigenze della collettività dall’altra. A garanzia della comprensibilità reciproca, che è presupposto della democrazia.
E ciò è tanto più vero nei testi istituzionali, in cui l’affezione per l’italiano dovrebbe portarci a valorizzare la lingua comune intesa come “bene culturale”, da preservare in una dimensione non museificata, ma neppure subordinata alle logiche di agende politiche e sociali in rapido cambiamento.
Chi volesse approfondire la prospettiva della grammatica filosofica o alcuni dei concetti qui appena accennati può leggere:
C. De Santis, La sintassi della frase semplice, Il Mulino, Bologna, 2021.
C. De Santis e M. Prandi, Grammatica italiana essenziale e ragionata, Torino, UTET, 2020.
M. Prandi e C. De Santis, Manuale di linguistica e grammatica italiana, Torino, UTET, 2019.
*Il contributo anticipa i contenuti di un intervento più ampio in uscita in uno Speciale Lingua Italiana-Treccani.it del prossimo mese.
Crediti immagine: Giggity miggity, Public domain, attraverso Wikimedia Commons